21.7.15

Big Boy

Shireen Seno
Filippine, 2012
89 minuti

Immaginare un'epoca lontana attraverso i racconti di chi l'ha vissuta, e registrarne (ricrearne) l'esistenza, facendola propria, come se a viverla fossimo stati noi, in un tempo in cui non eravamo presenti. L'attrattiva per questo primo lungometraggio di Shireen Seno, nasce da una semplice istantanea; il fotogramma di un bambino immortalato con lo sguardo volto al cielo, e al margine dell'inquadratura, il tipico effetto del light-leaks (quelle perdite di luce rosseggiante, caratteristiche dei cambi scena su pellicola).
Il pensiero corre immediatamente a Lukas the Strange del connazionale John Torres, per rivelarsi successivamente esatto, confermando non solo le analogie stilistico-concettuali, ma scoprendo inoltre che la regista è moglie dello stesso Torres, qui nelle vesti di produttore. Il risultato di questa collaborazione è il susseguirsi, in fin dei conti, della tematica di fondo più usitata nel panorama della new-wave filippina; il ritratto storico-culturale della propria nazione (nello specifico del film in questione, il cuore delle Filippine è raffigurato da un villaggio nell'isola di Mindoro, eternato ai tempi del dopoguerra, intorno al 1945) con le sue tradizioni e il fascino emanato, se vogliamo, da certe suggestioni locali. Infatti, se al "nino" torresiano veniva confessata la sua reale natura di tikbalang*, qui, il giovane "big boy" Julio viene sottoposto per volontà dei genitori a un singolare trattamento di crescita fisica precoce (ma in senso più simbolico, è una crescita emotiva, a livello interiore), mediante una serie di pratiche quali lo stiramento degli arti in direzione opposta, il sottostare con le braccia aperte sotto il sole, e la regolare somministrazione di un intruglio a base di fegato di merluzzo, ideato dal padre a scopo propagandistico, per far fronte all'indigente situazione famigliare che ha costretto Julio alla separazione da due dei sei fratelli, affidati alla tutela di zie lontane, fuori paese, a causa della povertà. Al centro del film, quindi, emerge principalmente la malinconia per un'infanzia smarrita, e che trova in Julio l'identificazione dell'autrice; una sorta di riflessione personale, come citato in apertura, echeggiante il fervente desiderio di poter esperire un passato conosciuto solamente a parole (i racconti del padre) e riedificarlo, quindi, attraverso il mezzo cinema e un suo proprio corpo, ideale, come quello del super8 che, con l'ausilio di procedure sperimentali, possa infine permetterne la fedele restituzione di un'immagine satura e profonda, trafitta di nostalgiche deteriorazioni dovute al tempo trascorso (allo stesso modo dell'elaborazione di un sonoro appositamente asincrono, evocante le circonvoluzioni della memoria). Cinema che si forma come un memoriale dunque, ma che di fatto, nella sua totalità equivale ad un semplice scatto fotografico (come quello che vede "big boy" fungere da sostegno - cavalletto - per il fotografo) immortalante un determinato periodo dell'esistenza e le generazioni, le persone, gli affetti più cari che in quello spazio di tempo ci hanno vissuto. Un'esemplare istantanea della vita; contraddistinta dai vividi colori dell'immaginazione, e al contempo, dalle indissolubili sfumature del ricordo.

*Nel folclore filippino, il Tikbalang è una creatura che vive nelle foreste, generalmente descritta come un ibrido tra uomo e cavallo - wikipedia


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