24.10.13

Chantal Akerman in the seventies: part #1 | Hotel Monterey

Chantal Akerman
Belgio, Usa, 1972
59 minuti

E' iniziato alla fine degli anni sessanta, per la precisione nel 1968 con Saute ma Ville, il decennio più interessante della regista/artista Chantal Akerman (nata a Bruxelles nel 1950), conosciuta dai più (specialmente nell'ambiente femminile) per quello che oltre ad essere riconosciuto come il suo capolavoro, rimane forse il più autentico film femminista della storia del cinema: Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles.
Nota nei circuiti più underground invece, per l'audace sperimentazione formale dei suoi primi lavori (lunghe sequenze a camera fissa, assenza o impercettibilità di movimento, estensioni temporali, astrattismo), specialmente quelli girati a New York e per la sua capacità di far emergere dall'osservazione prolungata dei suoi "ritratti", tutte quelle tematiche da lei particolarmente sentite, come la sessualità; (Je, tu, il, elle); i ricordi - le missive con la madre (News from Home) e i viaggi (Les Rendez-vous d'Anna) nonchè, i drammi che possono scaturire da una quotidianità viziosa (Jeanne Dielman). Tanto basta per considerarla a pieno diritto tra i principali precursori dell'attuale cinema minimalista e, come scrisse J. Hoberman: "senza dubbio la più importante cineasta europea della sua generazione". Detto questo, iniziamo col delineare una prima parte del percorso di Akerman concentrandosi dalla sua trasferta a New York, nel 1971. Consapevole d'aver trovato nella "Grande Mela" terreno fertile per la propria creatività, la regista comincia a frequentare gli ambienti delle avanguardie newyorkesi, interessandosi ai lavori di artisti quali Andy Wahrol, Jonas Mekas, Stan Brakhage ed essendo sempre più attratta dal loro modo di concepire un cinema che potesse svincolarsi dalla narratività classica e suscitare altrettante emozioni, essenzialmente con la potenza delle immagini. Nello stesso periodo, Akerman conosce Babette Mangolte (7 Easy Pieces) direttore della fotografia per Wavelenght di Michael Snow e inizia così una collaborazione artistica che la porterà a realizzare, l'anno successivo, i due primi film dall'impianto tipicamente sperimentale: La Chambre, cortometraggio di dieci minuti girato all'interno di una stanza, dove la cinepresa ruota lentamente a 360° immortalando sempre gli stessi oggetti per quattro volte (esperimento concepito appositamente per ravvivare l'attenzione dello spettatore verso qualsiasi minima alterazione visiva che può generarsi ad ogni passaggio) e Hotel Monterey, il film che a tutti gli effetti può considerarsi il suo esordio, nonchè un prolungamento del progetto precedente.


Privo di audio e girato in 16 millimetri all'interno del fatiscente Upper West Side Hotel, un albergo sulla 94a Strada a New York, Hotel Monterey è un film insinuante; una lenta e silenziosa incursione nell'assenza più integrale (sonora, corporea), un'indagine meticolosa sull'invisibile vita dei pernottanti, in prevalenza persone anziane o emarginati dalla società, i cui tratti somatici sembrano mimetizzarsi con l'architettura ambientale. Un film di presenze evanescenti, figure arcane celate nelle stanze, dietro le porte, nelle cavità più imperscrutabili di quel luogo, che Akerman riesce comunque a penetrare, a sondare in profondità grazie ad una costruzione formale ascendente; iniziando col filmare dapprima, la reception e i saloni al pianterreno per poi salire alla zona camere (organo centrale inanimato di un albergo cereo), fino a giungere sul tetto dell'edificio dal quale, con quella panoramica liberatoria, svela una New York rischiarata dalle prime luci del mattino. Il film infatti, si svolge quasi totalmente in notturna (le riprese sono durate più di un'intera notte, circa quindici ore), Akerman stessa ha dichiarato di voler "emergere dal buio alla luce, dalla notte al giorno, dal basso verso l'alto". Ecco quindi, che nella sua geometria di spazi claustrofobici e prevalentemente oscuri, Hotel Monterey procede con silente eleganza, manifestandosi in un tempo sospeso tra terra e cielo, terreno e trascendente, corporeo e incorporeo; un limbo, atto ad accogliere temporaneamente tutte quell'esistenze marginali o in prossima via d'estinzione: "Voglio che la gente si perda in questo spazio, in questi corridoi, ascensori, camere da letto e che allo stesso tempo, riesca ad affrontarne il vuoto - un hotel è un luogo destinato ad essere occupato, ma questo è in gran parte svuotato della presenza umana, di persone visibili e per questo, appare come una stazione di passaggio, sulla strada per qualche altro mondo". - Chantal Akerman

9 commenti:

  1. Film coraggiosissimo e progetto, il tuo, meritevole di plauso. "Hotel Monterey", lo vidi durante le giornate di Venezia, in maniera piuttosto stanca, visto il massacro di film durante la giornata e l'imperituro orario in cui lo trasmise il buon Ghezzi, che stasera, nel caso ti fosse sfuggito, darà nientepopodimenoché "L'outsider" di Béla Tarr. Lo stile della Akerman, comunque, mi è parso distantissimo dalle sperimentazioni warholiane e, come sostieni tu, molto vicino al minimalismo che oggi ben conosciamo. Sarebbe stato bello, però, vedere il film dopo questa tua attenta analisi, perché credo che molte cose mi fossero sfuggite: "nella sua geometria di spazi claustrofobici e prevalentemente oscuri, Hotel Monterey procede con silente eleganza, manifestandosi in un tempo sospeso tra terra e cielo, terreno e trascendente, corporeo e incorporeo; un limbo, atto ad accogliere temporaneamente tutte quell'esistenze marginali o in prossima via d'estinzione" pare cogliere appieno il senso del film, il suo emergere e distendersi, e lo rievoca, almeno a me, in maniera potente. Due cose, più che altro curiosità, devo chiederti. A me ha ricordato, per certi versi, il Bartas degli esordi, a te no? E, soprattutto, perché questo progetto sulla Akerman (ovvio, è seminale e brava, ma non credo, magari sbagliando, che sia solo questo a spingerti)?

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    1. Non sapevo che l'avesse trasmesso anche Ghezzi, ma d'altronde, figurati se lui si fa mancare questi "esperimenti". "L'outsider" di Tarr invece non l'ho mai sentito, ma in che periodo l'ha girato? Comunque, tornando a "Hotel Monterey", hai ragione riguardo Warhol, anche a me sembra un lavoro molto distante dal suo stile, ma anche da quello di Brakhage se ci pensi. Piuttosto invece, ho riscontrato un forte accostamento con l'opera di Snow (Wavelenght) il che, credo, nonostante la Akerman abbia frequentato anche Wahrol e compagni, apprezzandone sicuramente l'operato, sia però rimasta influenzata principalmente da quei film che oltre ad adottare tecniche puramente sperimentali (pellicola esposta a bruciature, found-footage, ecc) al tempo stesso sottraevano di brutto, quindi, "Wavelenght" (un lento avanzamento frontale di camera per 42 minuti, unico piano sequenza, con obiettivo puntato sulla finestra di un appartamento) resta senza dubbio una delle sue maggiori fonti d'ispirazione. Rispondendo alla tua domanda: "perché questo progetto sulla Akerman?" Più che un "progetto" è un'idea vecchia, che mi balenava da quando vidi "Les Rendez-vous d'Anna", che si può interpretare come un film sul viaggio (in tutti i suoi film c'è sempre qualcosa di autobiografico, vedi anche "News From Home"). Volevo collegare "Hotel Montery" a questo film (come una sorta di viaggio formativo) in un unico post, uno "speciale" dal titolo: "Dall'hotel Monterey alla stazione di Bruxelles". Rivedendo successivamente "Hotel..." ho riflettuto sul fatto che c'era troppa roba, troppo da scrivere per un solo post, così mi è venuta l'idea di scriverlo a capitoli, film per film e in questo caso, nella seconda parte mi concentrerò su "News from Home", che è l'ultimo suo film prima di lasciare definitivamente New York e infine, "Les rendez-vous..." (il ritorno a Bruxelles). Altre motivazioni: scarsità d'informazioni rilevanti in rete per quanto riguarda i suoi primi film, quindi, per quel che posso mi sembra doveroso rimediare, inoltre ho ripensato anche al tuo discorso sull'approfondimento di cinema e registi del passato ma significativi per un certo cinema odierno e poi, ovviamente, perchè come giustamente scrivi, Akerman mi piace un sacco e tra "le vecchie guardie" è sicuramente quella con qui sono entrato immediatamente in sintonia, credo alla pari di un Dumont o Reygadas, oggi.
      A Bartas non avevo pensato, ma personalmente non ci vedo accostamenti particolari, se non per il minimalismo di fondo, ma il cinema di Akerman lo trovo fondamentalmente più metropolitano, urbanistico...

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    2. "L'outsider" è il secondo Tarr girato in prossimità degli anni ottanta, se non ricordo male. Comunque, "Les rendez-vous d'Anna" mi manca, ma da come ne parli è una deficienza che devo assolutamente colmare (tra le tante...). Purtroppo, la voglia, come avrai ormai intuito, da parte mia sta un po' scemando, e ho bisogno di trovare qualcosa di nuovo (il Tarr di stanotte, ovvio, non vedo l'ora di recensirlo, ma ogni tanto mi sembra di proseguire per inerzia o, meglio, mi sembra che qualcosa mi sfugga, che ci siano altri percorsi, altre sostanze da indagare), ma sarà il periodo... Tu, invece, sei encomiabile, e questo tuo progetto lo dimostra, anzi cristallizza appieno l'opinione che ho di te come cinefilo. Bartas, dal canto suo, mi era venuto in mente per quel tuo parlare di emersione, anche se forse il movimento in Bartas segue flussi diversi, ma, appunto, probabile che sia totalmente in fallo.

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    3. Se posso consigliarti, quando ne avrai tempo e voglia, prima di "Les rendez-vous d'Anna" piuttosto, se non l'hai già fatto guardati "Je tu il elle" e "Jeanne Dielman" (soprattutto quest'ultimo). Per quanto riguarda la tua demotivazione, vabbè, è anche comprensibile; pensaci, a settembre ti sei sparato quasi tutte le giornate di Venezia e hai riempito il blog con una trentina di recensioni (che poi, chiamarle recensioni e più che riduttivo, per come scrivi te, si, mica il commentino "ok questo merita questo no"...) ed encomiabile è stata questa tua costanza, che come sai, ho sempre ammirato. Inoltre aggiungici i tuoi studi che credo, in questo momento avranno di certo la priorità... è il periodo dai ;) Fossi in te non mi affannerei a cercare chissà quali percorsi, scrivi quando trovi un film di cui senti la necessità di scrivere, senza forzature, ma al contempo cerca di mantenere vivo il blog", sarebbe una perdita preziosissima, credimi. E poi, oh!... Ricordati che tra un mesetto c'è il Torino Film Festival, devi tenermi informato...

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    4. "Je tu il elle", l'ho scaricato da tempo, e a quanto pare è venuto il tempo di vederlo. La tua recensione a riguardo mi intimoriva, onestamente, per quanto ammaliante in realtà fosse. Sia come sia, il blog, naturalmente, non lo chiuderei o fermerei mai, ci mancherebbe! Però, hai ragione, Venezia è stato un coacervo e la ripresa dell'uni non ha certo aiutato. Il primo novembre, però, sempre su FuoriOrario, verrà programmato "Almanacco d'autunno" (!!!) e tra poco ci sarà il TFF, per l'appunto, quindi da scrivere ne avrò, speriamo magari su qualche capolavoro.

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    5. Perchè ti intimoriva "Je tu il elle", forse non ti sembrava nelle tue corde? Secondo me potrebbe piacerti, ma ancor di più, apprezzerai quel capolavoro che è "Jeanne Dielman", se non altro per la durata, (cose a te congeniali ormai): quasi 200 minuti, che nemmeno ti accorgi ;) Riguardo al TFF ci sto facendo quasi un pensierino...

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    6. No, anzi, sembrava sulle mie corde, eccome, ma, non so, mi dava l'aria di qualcosa di faticoso, da metabolizzare progressivamente e lentamente... Facciami sapere per il TFF!

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  2. Cribbio, ma che razza di film è "Wavelenght"? O.o

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    1. Audace, "Wavelenght". pensa che razza di esperimento per i tempi, era il '67! A quanto pare l'hai apprezzato più di me, però, ora che l'abbiamo "riesumato" non mi dispiacerebbe rivederlo. Se poi ti venisse l'ispirazione di scriverne due righe, sarei oltremodo stimolato, nonchè curioso di leggere le tue impressioni...

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