3.5.13

Flandres

Bruno Dumont
Francia, 2005
87 minuti


"Lo spettatore è “pieno”, sceneggia, interpreta. Per stupirlo occorre “svuotarlo”. Il mio film cerca di lavorare il cuore dello spettatore, di modificare il suo sguardo. Le Fiandre sono un mistero per me. È la mia terra natale: viscerale, sensibile, irrazionale. La cinepresa diventa un microscopio, un apparecchio che scruta il soggetto: ho bisogno della terra per filmare gli esseri umani. Filmandole, le Fiandre restituiscono una parte dell’esistenza umana."
(Bruno Dumont)
 
Andrè Demester (Samuel Boidin, già visto in L'Età Inquieta) è un giovane contadino che lavora nella sua fattoria, situata nelle fredde campagne della Francia del Nord.
I suoi unici momenti di svago sono costituiti dagli incontri con Barbe (Adélaïde Leroux), sua vicina di casa e amica d'infanzia sessualmente disinibita (tipica bellezza che mi piace definire "di seconda era dumontiana", vedi anche Hadewijch e Hors Satan). I due ragazzi consumano i loro amplessi tra il verde dei campi, in modo del tutto naturale, dettati da pura esigenza fisiologica, senza coinvolgimenti emotivi o sentimenti, tranne quello di un'amicizia che li lega dall'infanzia. Ma in realtà Andrè cela segretamente un affetto molto più profondo e lo si evince già dalla sequenza del bar, quando Barbe incontra Blondel (Henri Cretel), un altro ragazzo del luogo e con cui si apparta in auto. Le monotone giornate nelle Fiandre scorrono così via tranquille finchè per Andrè e compagni, arriva il momento della chiamata da parte dell'esercito per una non ben specificata missione in un'altra zona del mondo (Medio Oriente?). Da questo punto in poi il film si divide su due fronti: da una parte le atrocità della guerra che segneranno profondamente Andrè e dall'altra il macigno della lontananza, portatrice di ulteriori afflizioni che si ripercuoteranno in Barbe, anche a livello psicologico. Quando Andrè ritorna, unico superstite, alle sue terre, tra i due ragazzi potrà forse nascere qualcosa...


Nell'attesa di poter vedere Camille Claudel 1915, l'ultimo lavoro di Bruno Dumont, uno degli autori più provocatori del nuovo cinema francese, rinfreschiamoci la memoria cominciando a riesumare tra i suoi trascorsi. Su di lui meriterebbe scrivere prima o poi un trattato speciale che analizzi tutto il suo straordinario percorso di puro cinema sensitivo. Escludendo l'ultima incursione quindi, restano sei pellicole realizzate dal 1997 al 2011, 14 anni per raccontare, in fin dei conti, la stessa ed unica storia: la desolazione dell'animo umano.
Vincitore del Gran Premio della Giuria al 59° Festival di Cannes, Flandres è un film importante perchè segna l'inizio di un secondo processo rigenerativo dopo la parentesi (frattura) con Twentynine Palms (unico lavoro del regista girato fuori dal suo territorio d'origine), in cui si possono osservare alcuni indizi che ci fanno comprendere come il regista stia attraversando una fase di cambiamenti, per esempio, attraverso l'incisiva impronta lasciata per la prima volta da un personaggio femminile (Barbe) e l'apparizione dell'attore David Dewaele (l'unico ragazzo del villaggio che non si arruola e che viene rifiutato da Barbe), che da quì in poi diventerà l'imponente icona del secondo percorso dumontiano. Le fiandre, le silenziose campagne francesi che costituiscono per tre quarti tutta la poetica dell'autore, fanno da tappeto essenziale per la rappresentazione "dell'Umanità", fagocitata tra i prati umidi e le aride distese riscaldate dal sole. La terra, che sia essa polvere o rugiada, è il collante di due luoghi e due mondi opposti, ma entrambi riuniti nel principale scopo di racchiudere apatie, sofferenze, animi inquieti e sconsolati, cuori letargici. Da ciascuna di queste terre emerge tutto l'universo dumontiano passato; c'è innanzitutto l'assenza persistente, l'enorme vuoto, esistenziale e paesaggistico, ci sono gli amplessi selvaggi, la violenza dello stupro, c'è perfino il tentativo di un'elevazione (ultra)terrena di natura "pharaonista". E quì, sorprendentemente, emerge la lucidissima rappresentazione di un futuro già perfettamente delineato, che trova in Barbe l'esemplare d'origine da cui poter rimodellare imminenti figure che assumono personalità dal potente valore trascendentale, dissolte in spazi sempre più sconfinati e purificatori. Flandres è dunque un film di scissione, destruttura il passato e lo ricompone sotto un'ottica apparentemente invariata, ma in realtà strabordante di ingegnosi flussi creativi che il regista si affanna, insaziabile, nel rielaborare continuamente ad ogni tappa. E l'aratro di Demester solca e affonda in quella terra, tanto cara e fertile a Dumont per tracciare la linea che lo condurrà alle due opere consecutive; dalle fredde campagne delle fiandre, al polveroso deserto del Medio Oriente, penetrando ancor più in profondità nei turbamenti interiori dell'anima (Hadewijch, 2009) ed esplodendo infine, lacerante, in quella che al momento è l'apice di tutta la sua poetica (Hors Satan, 2011), forse, un ulteriore punto di svolta per future evoluzioni...

8 commenti:

  1. Mi sa che hai colto appieno la poetica di Dumont e, da come lo descrivi, questo potrebbe essere il mio film preferito di Dumont.

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    1. Grazie, detto da te è un gran complimento! Spero di aver colto quanto nel possibile e naturalmente aspetto la tua disamina, specialmente, riguardo alla scena immortalata nei primi due fotogrammi da sinistra proprio sopra il tuo commento! Attendo :)

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  2. Lo vedrò stasera, mi è venuta curiosità di vedere anch'io questa scena di così difficile interpretazione (è quella dell'elevazione pharanoista?)

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    1. Sì è quella. "pharaonista" perchè ritengo abbia uno stretto legame simbolico, oltre che visivo, con la scena della "levitazione" di Pharaon nell'orto in L'Umanità. Comunque sia, in Flandres questo è uno dei momenti più alti raggiunti da Dumont! Mi saprai dire...

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  3. è l'unico di Dumont che mi manca....

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    1. Ed è uno dei migliori!
      Nella mia personale scaletta dumontiana, terza posizione...

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  4. Visto oggi assieme a un'amica, ed entrambi non abbiamo ben capito il finale. O, meglio, non abbiamo capito la scena in cui lei dice di essere stata lì, di sapere cosa veramente fosse successo... ad un certo punto, poi, si mette addirittura in punta di piedi, occhi al cielo, e sembra quasi voler assurgere a qualche paradiso non meglio specificato. Magari tu riesci ad illuminarmi.

    Tra l'altro, solo a me è sembrato che la guerra fosse in realtà il futuro? Cioè, c'è questo parallelismo Francia/Medio Oriente che è in qualche modo scoordinato dal fatto che il territorio occidentale sia in qualche modo "idilliaco", bucolico, mentre quello mediorientale sia più tecnologicizzato, per il fattore guerra appunto. Solo io ci vedo un senso di perdita, di disillusione nei confronti del futuro, del fatto che il progresso eccetera, secondo Dumont, non porteranno ad altro che non sia quell'angosciante, terribile e nefanda esperienza filmata in Medio Oriente, quasi che, più che un film sulla guerra, sia in realtà una specie di film distopico?

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    1. Ma come Yorick... dovevi illuminarmi te su quella sequenza, mannaggia :D
      Sinceramente devo ancora studiarci sopra, ci vuole assolutamente un'altra visione e forse...
      Invece trovo illuminante la tua impressione sul pararellismo tra i due mondi: il medioriente "tecnologicizzato" visto come un futuro distopico ci pottrebbe stare, mettendo in conto la sofferenza e la desolazione (interiore) che pervade tutto il film (e non solo questo, ma tutto dumont). Allora non ci avevo pensato ma effettivamente la vedo così pure io. Che Flandres non sia un film sulla guerra era già chiaro dall'inizio o almeno, io non l'ho mai considerato tale. Comunque apprezzo molto la lettura che ne hai dato, molto interessante, grazie!

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